Più di un anno fa riflettevo su alcuni effetti della pandemia, sul sentimento di radicamento inteso come ritorno alle proprie radici e su una certa radicalizzazione delle posizioni (qui il breve testo). Se il Covid è stato (e lo è tutt’ora) una vera e propria frattura sociale, oggi possiamo dire di assistere all’aggiunta di una seconda, forse ancora più sconvolgente, almeno per le generazioni più giovani.
Covid e guerra: le due fratture sociali che segnano il tempo d’oggi.
La nostra società, in particolare quella occidentale, capitalistica, democratica, modernizzata e – rispetto ad altre zone del globo – complessivamente agiata, ha subito nel giro di un paio d’anni due enormi fratture socioculturali (i cosiddetti cleavages coniati da Rokkan per le mutazioni politico-partitiche, queste “spaccature” possono in ogni caso dare origine a varie conseguenze su diversi piani). Entrambe, anche se in misura diversa, sono state determinate da fattori endogeni (il Covid in forma meno diretta, la guerra in Ucraina decisamente di più).
La nostra tuttavia è una società abitata prevalentemente da persone che la guerra l’avevano vista solo in televisione. Lontana, in paesi abitati da persone e culture distanti da quelle europee. Una guerra (fratricida) determinata da una potenza mondiale autocrate, (a differenza della guerra anch’ella fratricida avvenuta nell’ex Jugoslavia degli anni 90).
Una minaccia, non concreta ma pur presente, di espansione del conflitto e di utilizzo di armi nucleari. Di colpo ci ritroviamo nella guerra fredda, dove però stavolta le temperature più basse si trovano in Europa, al confine con l’Ucraina.
Il Covid, come detto, è stato il primo dei due recenti punti di rottura, collettivo e generalizzato. Ci ha paralizzati e ha palesato in noi una certa impreparazione. Non solo, ha portato a: morte, paura, limitazioni, disagio fisico, psicologico ed economico. Ha portato a povertà, diseguaglianze, ingiustizie crescenti. Ha portato, in certi termini e per molti, a cambi di mentalità e azioni. Una pandemia mondiale che ci ha cambiati, ancora non si sa come. Ma neanche il tempo di uscirne (perché ancora non ne siamo del tutto usciti) e arriva la guerra alle porte. Manco a dirlo, anche stavolta non eravamo minimamente pronti. Sarà disabitudine, disillusione, una certa credenza di aver portato avanti un processo di sviluppo civile, di pace e di progresso. Evidentemente ci sbagliavamo, vivevamo in una bolla (felice?) e ora ci ritroviamo a vedere bombe e distruzione.

Oltre agli smisurati e incalcolabili danni umani e morali, vi si aggiungono quelli ambientali. Con una crisi climatica già galoppante ci ritroviamo col rischio di rimettere in discussione impegni e obiettivi presi per mitigarla. La crisi energetica (o bene che vada il caro prezzi) sembra stia portando a scelte poco sostenibili a livello ambientale, un tornare indietro che non ci possiamo permettere. D’altronde in gioco ci sono sostenibilità sociale ed economica e, si sa, quasi sempre queste ultime nei fatti e nelle decisioni, prevalgono su quella ambientale. In particolar modo nel nostro paese sono state fatte negli anni scelte energetiche sbagliate e miopi, questi oggi sono i risultati. Adesso bisogna agire di fronte a un’emergenza, ma se ragioneremo sempre in quest’ottica ci troveremo sempre a rincorrere i problemi.
Non essere preparati non vuol dire però necessariamente soccombere, si può anche subire il colpo ma poi bisogna reagire. Non parlo in questo caso di guerra ma di una generazione, forse più di una. Generazioni che non si ponevano più questi problemi, pensavano che fossero ormai cosa che non le riguardasse. Un atteggiamento forse miope, probabilmente in parte egoistico e opportunista (visto le tante guerre che ci sono e ci sono sempre state nel mondo). Tutto questo può generare però un riscatto, la volontà di dimostrare che non si è come si viene sempre dipinti. Agio, benessere e apparente tranquillità del mondo occidentale sono stati rimessi in discussione da queste due enormi fratture. Adesso l’unico modo possibile per non rimanere paralizzati è riflettere, e (re)agire. Ognuno per quel che può. A parlare, poi, saranno i fatti.
Capire innanzitutto cosa può e deve essere fatto.
Fare soprattutto ciò che è utile. Limitare il superfluo. Vivere in modo più sobrio. Un tornare indietro che forse ci permette di vedere dove abbiamo sbagliato, o quantomeno, di apprezzare di più il buono che ci si era conquistato.
Tornare all’essenziale per costruire nuove basi. Fondamenta per il futuro. Una mentalità che già in modo spontaneo negli anni stava già prendendo campo.
Oggi appare l’unica possibilità: agire con pensiero sostenibile, misurato, solidale, coraggioso, efficiente, parsimonioso, concreto e al tempo stesso visionario, di prospettiva. La forma si definisce con la politica, la differenza però la fanno le azioni.
In questa fase di nuova emergenza e rinnovamento al ribasso degli standard di produzione e di vita sarà ancor più utile portare avanti un approccio sostenibile.

La sostenibilità come mindset, la cassetta degli attrezzi per programmare il futuro e gestire il presente. Con fatica e difficoltà. Cercando di ottimizzare al meglio quello che si ha, non sprecarlo e cercare di essere il più possibile empatici, collaborativi e solidali. Ma non basta, perché si sa che è proprio in questi momenti di difficoltà e scarsità che possono prevalere atteggiamenti egoistici e di prevaricazione. Bisogna quindi essere anche rigorosi e penalizzare chi sfrutta il momento, chi gioca sulla pelle degli altri. Controlli e sanzioni (anche interne), aiuti e risposte immediate, altrimenti si darà vita al caos, al tutti contro tutti. E a rimetterci saranno soprattutto chi è già più debole.
Sinora si è sempre ragionato nel breve, ma la coperta è finita da un pezzo e ci stiamo impegnando pure quelle dei prossimi anni. Non si torna indietro, certo, ma si può agire (per quanto possibile) con una mentalità diversa: sostenibile. La sostenibilità delle azioni come fondamenta e guida per il presente e per il futuro.